Simona Apolito - Hospice - Simona Apolito

psicoterapeuta
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HOSPICE

Letteralmente Hospice significa «casa della buona morte», nasce in Inghilterra con il St. Christopher’s Hospital nel 1967.
Si tratta di una struttura residenziale e con pazienti domiciliari, ormai molto diffusa anche in Italia, che fornisce cure palliative, quando la persona non è più suscettibile di trattamento terapeutico attivo.
Il ruolo dello psicologo consiste nel sostenere il paziente e i familiari nel difficile e doloroso percorso verso la fine della vita.
Come sappiamo dagli scritti di E. K. Ross (La morte e il morire), ci sono cinque stadi nel processo di elaborazione del lutto: fase della negazione o del rifiuto; fase della rabbia; fase della contrattazione; fase della depressione; fase dell’accettazione.
Ci si augura sempre che il paziente, giunto a uno stadio terminale della sua malattia, sia approdato alla fase dell’accettazione, in cui sta elaborando quanto sta succedendo intorno a lui, accettando la propria condizione e quanto sta per accadere. Ci possono comunque essere momenti di rabbia e depressione, ma soprattutto il paziente tende ad essere silenzioso e a raccogliersi; sono frequenti inoltre momenti di profonda comunicazione con i familiari. È il momento dei saluti e della restituzione a chi è stato vicino al paziente. È il momento del “testamento” e della sistemazione di quanto può ancora essere sistemato.
A volte mi  sono trovata ad accompagnare il paziente e i suoi familiari in questa fase, con il sostegno, la disponibilità all’ascolto, il rispetto dei silenzi.
A volte invece, sono i familiari a non accettare la realtà della malattia terminale del loro caro e si rifiutano di comunicare la reale situazione al paziente, negandogli così la possibilità di accedere a questo stadio di elaborazione e di poter sviluppare una comunicazione profonda. Si perpetua così un inganno reciproco tra i familiari e il paziente, non dando modo a nessuno di esprimere il proprio dolore.
In queste circostanze come psicologa sono intervenuta per avvicinare i membri della famiglia, troppo spesso spaventati dal dolore.
Ci sono anche situazioni in cui invece il paziente, lucido, cosciente e consapevole, attua un meccanismo di difesa, la negazione, per negare appunto a se stesso quanto sta accadendo.
Dopo diversi anni che ormai svolgo questo lavoro, ritengo che non esistano soluzioni universali o cose giuste da fare in ogni circostanza. Di sicuro è importante cercare di rendere il paziente egosintonico con i suoi stati emotivi. Dirgli che “andrà tutto bene” quando lui per primo sente che il suo fisico è sempre più debole e non ce la fa, si vede dimagrito, astenico, immobilizzato a letto, a volte confuso, con un progressivo deterioramento, significa esporlo a uno stato di confusione tale che potrebbe portarlo a una dissociazione psicotica e una sofferenza ancora maggiore. Dall’altro lato non intendo certo far precipitare la persona in un’angoscia di morte disperante, terribile e senza uscita con comunicazioni dirette e forse troppo dolorose a cui non è preparata.
Credo che occorra mantenere un corretto atteggiamento deontologico innanzitutto, comunicando la giusta diagnosi ai familiari e rispettandoli se chiedono di non informare il paziente, perseguendo il difficile compito di sostenerli in questo percorso. Se è il paziente stesso, come capita, a sentire il bisogno di un dialogo profondo per lenire l’angoscia di morte, affrontando direttamente temi che riguardano la fine della propria vita, mi sembra doveroso essere presente come figura professionale di sostegno e supporto psicologico.
Non di rado mi ritrovo ad utilizzare l’ipnosi con questi pazienti. Uno degli obiettivi è stato agire direttamente sul dolore, con buoni risultati (ho presentato un lavoro sul dolore oncologico terminale al VIII Congresso Nazionale di Ipnosi). Ma non solo: anche permettergli di sperimentare momenti di rilassamento e di pace, potendo accedere a ricordi di un tempo antecedente la malattia. L’equilibrio psichico che l’ipnosi fornisce in questi casi, consente alla persona di vivere gli ultimi momenti in serenità con i propri cari.
C’è stato un caso invece di un paziente molto agitato e ansioso, cosa che procurava non poca sofferenza in lui e nella sua famiglia, che dopo l’ipnosi si è lasciato andare, addormentandosi dolcemente, ponendo fine alle proprie e altrui sofferenze.
Sono naturalmente molte le situazioni con cui mi sono trovata a confrontarmi in questi anni: dal dolore fisico, lacerante e ingestibile, al dolore psichico, profondo e fortissimo; molti i tipi di persone e le età: da anziani signori a giovani, a ragazzi con genitori disperati avvolti una sofferenza indicibile, a padri, madri, mariti e mogli straziati da un dolore a cui spesso non riescono a trovare un senso.
Ho cercato di leggere, documentarmi, studiare tutti i modi possibili per provare a lenire in qualche modo, anche solo per poco, il loro dolore. Mi hanno aiutato autori come E. K. Ross che per anni si è occupata di malati terminali, psichiatri come V. Andreoli con il suo testo “capire il dolore”, ho preso spunto dalle Opere di M. H. Erickson e dai suoi metodi ipnotici. Ho cercato di entrare nella realtà del paziente e nel suo dolore, per quanto me lo consentiva. Negli “artcoli” racconto il caso di Luigi, l’uomo con metà volto, il suo, il mio dolore e il profondo legame che si era creato tra noi.
La storia e le opere di Madre Teresa di Calcutta mi hanno molto sostenuto, nei momenti di stanchezza e di scoraggiamento.
Scrive Eschilo: “solo agli dei scorre la vita, eternamente, senza dolore”, essendo il dolore una caratteristica del fisico e dell’animo umani.
Ma, come disse Madre Teresa: noi stesse ci rendiamo conto che quello che facciamo è solo una goccia nell’oceano. Ma se non ci fosse quella goccia, all’oceano mancherebbe quella goccia perduta.
 
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